Nablus. L’antica Neapolis, “città nuova”. Non è un caso sia immortalata in Giordania nei mosaici bizantini di Umm Rasas, meraviglioso, e semi-sconosciuto, sito archeologico sotto protezione Unesco. È – nella rappresentazione dei mosaicisti – tra Gerusalemme e Sebastia, altra città determinante nella storia del Medio Oriente e uno dei luoghi in cui si dice sia conservata la testa di San Giovanni Battista, al di sotto della locale moschea. Di questa storia antica ci si dimentica, quando le notizie che arrivano dalla Cisgiordania schiacciano tutto, città ed esseri umani, dentro un gorgo profondo e oscuro.
Nablus diventa, così, un luogo senza storia, senza la dignità della sua storia, impressa in ogni pietra di una città vecchia tra le più belle dell’intera regione. Tra le più belle, e le più martoriate, di tutta la Palestina.
Potrebbe sembrare un dettaglio inutile, persino indelicato, in queste ore, ricordare Nablus come Neapolis, oppure come il punto di passaggio più importante tra Gerusalemme e Damasco in epoca ottomana. Eppure è un dettaglio a suo modo necessario, in una narrazione che rende non solo tutto l’Oriente, ma anche le città palestinesi – come ben descriveva il più famoso e rimpianto intellettuale palestinese, Edward Said – un posto senza storia. Dunque, dentro quel gorgo profondo e oscuro del permanente orientalismo. Dunque, affogate in uno stereotipo che non rende giustizia alla realtà, storica e quotidiana.
Nablus è, a seconda delle narrazioni, un covo di terroristi, una città fuori dal controllo delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, un luogo in cui le operazioni delle forze armate israeliane sono necessarie. Non c’è contesto. Non c’è attenzione al linguaggio, alle parole usate e da utilizzare.
Eppure, se non bastasse la cronaca dolorosa di questi ultimi giorni, mesi, anni, un film come Paradise Nowdi Hani Abu Assad dovrebbe almeno far riflettere. Di sicuro, deve far riflettere di più e meglio di quanto faccia Fauda, la serie Netflix che tutto appiattisce sullo scontro armato tra due soggetti, Israele e Palestina, che sembrano dotati nella rappresentazione di uguali mezzi e uguale forma istituzionale.
In questa sindrome da Fauda si perde, invece, il contesto. Nablus è una città sotto occupazione israeliana dal 1967. Israele è, da allora, potenza occupante sottoposta a precisi doveri sanciti dal diritto internazionale: non costruire nelle zone occupate, fornire gli occupanti della possibilità di vivere in dignità. La Cisgiordania, Nablus compresa, è invece testimone di violazioni già stigmatizzate da decenni, in primis la costruzione di colonie in cui vivono, a oggi, oltre mezzo milione di israeliani.
In più, per il processo di Oslo Nablus è zona A, come le altre città palestinesi della Cisgiordania. Le forze armate israeliane non ci dovrebbero mettere piede, poiché sono le forze di sicurezza dell’ANP a dover gestire l’ordine pubblico.
Così non è, da anni. Nablus è stata circondata per settimane, di recente, con la chiusura del checkpoint di Huwwara. E le incursioni dell’esercito israeliano, a Nablus e a Jenin, sono continue, sempre più ricorrenti e sempre più sanguinose. Nel 2023 sono già 61 i palestinesi uccisi, una media di oltre un morto al giorno. La narrazione israeliana è che le forze di sicurezza dell’ANP non riescono più a controllare le città della Cisgiordania settentrionale, e che le incursioni sono necessarie per “neutralizzare” i gruppi armati, spesso non più controllati neanche dalle fazioni palestinesi. La narrazione palestinese è che i gruppi armati, e non solo quelli armati, reagiscono all’occupazione della Palestina.
Il disagio, però, è ormai diffuso. Tra gli analisti israeliani, tra quelli europei e americani. Persino Tony Blinken, il segretario di Stato americano, ha cercato di raggiungere un accordo con Bibi Netanyahu per far diminuire il numero di operazioni dei nuclei speciali dell’esercito israeliano. Accordo raggiunto, dicono le fonti ben informate. Peccato che l’accordo sia saltato appena tre giorni dopo la sua definizione. D’altro canto, non è la prima volta che succede, nella lunga storia dei rapporti tra Netanyahu e l’amministrazione di Washington. La storia ricorda un simile sgarbo di Netanyahu nel 1997 a Madeleine Albright: in quel caso, riguardò il via alla costruzione della colonia di Har Homa, che ora – forte di decine di migliaia di abitanti – chiude il legame tra Betlemme e Gerusalemme.
A trovarsi in forte imbarazzo sono persino centri studi legati alle comunità ebraiche americane, come lo Israel Policy Forum, che reso pubblica la sua posizione sulle incursioni nelle zone A della Cisgiordania, soprattutto a Nablus, città dove il raid del 22 febbraio – compiuto in pieno giorno e nell’apertura dei mercati nella città vecchia – ha lasciato in quattro ore 11 morti (tra cui civili), oltre cento feriti e distruzioni pesanti.
Forse non è superfluo aggiungere che il sanguinoso raid di Nablus è avvenuto all’indomani dell’approvazione, alla Knesset, della riforma giudiziaria che mette a dura prova l’assetto democratico dello Stato di Israele e che viene contestata da settori sempre più estesi dell’opinione pubblica. A schierarsi con parole durissime è oggi anche Amos Schocken, lo storico editore del quotidiano liberal Haaretz.
Ecco quello che Schocken scrive ai suoi lettori:
Israel’s newly empowered right wing, discarding its liberal right heritage, has swung towards nationalism, illiberalism and authoritarianism. We now have a serving prime minister who is simultaneously the subject of an ongoing criminal trial, and hoping to evade justice. We have a government pushing to undermine the rule of law in Israel, to end the separation of powers, the independence of the courts and judges, and to crush freedom of expression.
It is incumbent upon us to fight these policies and even worse proposals taking shape among members of the governing coalition. This fight must be informed by the unparalleled, and unafraid, reporting and analysis that has been our mission for over a century.
At Haaretz, our dedicated journalists are on the ground every day working to defend a free and democratic Israel.
L’immagine è di Paola Caridi
L’analisi è pubblicata sul sito di Lettera22