Da oltre sette mesi succedono cose, in Israele, che non sono mai successe prima. Da 29 sabati succedono cose, a Tel Aviv e in decine di altre città israeliane, persino in colonie dentro il Territorio Palestinese Occupato, che non sono mai successe prima. Di queste cose che non sono mai successe prima, però, la stampa italiana (intendo anche tg e gr) se n’è occupata in maniera episodica, senza costanza, senza mai dare una continuità che avrebbe fatto comprendere al pubblico, alle lettrici e ai lettori, quello che realmente sta succedendo.
Tutto è cominciato dopo la vittoria di Benjamin Netanyahu alle ultime elezioni. Dopo un breve allontanamento dal potere, dunque, Netanyahu è riuscito a mettere insieme una coalizione di destra-destra che ha subito mostrato un cambiamento forte nella storia israeliana, e nello stesso passo politico tenuto dal primo ministro nella sua lunga carriera.
Fino all’insediamento dell’ultimo governo Netanyahu la politica israeliana è sempre stata ferma nel perseguire il graduale consolidamento dello status quo e dei fatti sul terreno. In pratica, crescita delle colonie in Cisgiordania, e blocco di qualsiasi possibilità per i palestinesi di costituire uno Stato. Tutto cambia con la presenza al governo di una destra estrema e messianica che già aveva mostrato sul terreno, sia in Israele, sia dentro la Palestina, cosa voleva e cosa può fare: non solo impedire la costituzione di uno Stato di Palestina, ma definire anche formalmente i palestinesi (sia quelli con cittadinanza israeliana, sia quelli in Cisgiordania e a Gerusalemme est) come “senzadiritti”, contro i quali esercitare anche il potere repressivo senza alcun freno.
Così è successo, già nei primi mesi del sesto governo presieduto da Benjamin Netanyahu, il sesto esecutivo da lui diretto nella sua pluridecennale carriera. Lo si è visto nella rapida e incontenibile ascesa al potere dei suoi elementi più importanti della destra estrema, Itamar Ben Gvir e, ancor di più, Bezalel Smotrich. Netanyahu, in questi mesi, ha mostrato una debolezza sempre più evidente, man mano che il programma di governo di Ben Gvir, Smotrich e, per quanto riguarda la controversa riforma giudiziaria, di Yair Levin si è mostrato in tutta la sua estensione.
È un programma che non riguarda solo la Corte suprema, i suoi limiti e il bilanciamento tra i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. È un programma che mina alle basi la costruzione dello stato di Israele come immaginato e costruito dal sionismo, in massima parte ashkenazita, che era arrivato nella Palestina storica. Molti gli elementi: il messianismo dei settori dell’estrema destra israeliana, la stessa concezione di una democrazia che ha poco a che fare con la democrazia liberale, e (infine, ma non da ultimo) il razzismo anti-arabo che è palese nelle parole e negli atti dei partiti di Ben Gvir e Smotrich.
È solo partendo da questi dati di fatto che si comprende quello che, di incredibile e di unico, succede in Israele da oltre sette mesi, da quando sono iniziate le proteste che hanno portato in piazza – ogni sabato – centinaia di migliaia di persone appartenenti ai più diversi settori della società israeliana ebrea. Un particolare non di poco conto, e che vale la pena di essere sottolineato: sono solo gli israeliani ebrei a scendere per le strade, a fare blocchi stradali e a occupare lo stesso aeroporto di Tel Aviv. Il 20 per cento della popolazione di Israele, composto di palestinesi con cittadinanza israeliana, non partecipano alle manifestazioni che riguardano la democrazia di Israele, costruita solo dagli israeliani ebrei. I palestinesi stanno a guardare, anche perché l’elemento irrisolto è proprio quello che riguarda la questione palestinese e l’occupazione. Fino a che la battaglia interna per la democrazia non risolverà questo nodo cruciale, i palestinesi rimarranno a guardare.
Il governo Netanyahu non ha ascoltato la piazza. La riforma giudiziaria voluta pervicacemente dalla sua coalizione è stata sospesa solo per alcune settimane: una pausa tattica, nella speranza di spegnere la protesta per stanchezza. Ora i tempi si sono accelerati, nel tentativo di raggiungere l’obiettivo prima che la pressione popolare e, in parte, anche degli Stati Uniti nella persona del presidente Joe Biden, blocchino il colpo di mano.
Il tempo, però, ha solo consolidato l’opposizione a quello che la protesta di piazza considera un vero e proprio “golpe”. Un attentato alla democrazia israeliana. Il tempo ha, anzi, compattato le tante opposizioni: i settori laici, lo hi-tech, i lavoratori, il sindacato, i massimi dirigenti dello Stato israeliano degli scorsi decenni. Mai si è visto, come invece si è visto nelle scorse settimane, lo Stato contro Netanyahu e il suo governo. Ex primi ministri in piazza o a occupare l’aeroporto, ex ministri della difesa che arringano la folla, ex capi della polizia che scendono per strade, e mille tra ex capi di stato maggiore, generali e ufficiali riservisti che accusano Netanyahu (è successo oggi sabato 22 giugno) di essere il responsabile della debolezza di Israele.
Israele contro Israele, al limite della guerra civile. Questo è quello che sta succedendo in una protesta che, ormai da settimane, ha uno slogan ripetuto sopra a tutti. “Democrazia o ribellione”. Questo è il significato della “marcia su Gerusalemme”, iniziata martedì in sordina, poche migliaia di persone partite da Tel Aviv nel cuor della notte, pian piano, accampate lungo la strada. Poche migliaia che sono poi diventate venti, trentamila lungo il percorso e che oggi, sabato, sono diventate più del doppio. L’autostrada numero 1 è stata chiusa, e l’immagine dai droni e di una vera e proprio marcia della Israele laica che non rispetta i dettami dello shabbat, entra a Gerusalemme e si unisce a coloro che invece seguono i precetti del sabato.
Non era mai successo, in 75 anni di vita dello stato di Israele. Se non, forse, quando la sconfitta nella guerra dello Yom Kippur costò all’allora premier Golda Meir il posto e la carriera politica. Dopo la vittoria elettorale del dicembre 1973, dopo la fine della guerra, Golda Meir resistette solo pochi mesi alla testa del suo governo. Molti, tra i commentatori, ricordano la storia e, soprattutto, la ricordano a Benjamin Netanyahu, accusato di voler riformare la giustizia per evitare i suoi personali guai giudiziari e le indagini in corso su di lui da anni che ne fanno un’anatra zoppa politica, ostaggio di una destra estrema che vuole cambiare tutto ciò che è possibile cambiare, negli equilibri politici e istituzionali.
Ehud Barak, uno dei più famosi premier-generali della storia israeliana, ha postato un tweet in cui consiglia a Netanyahu di bere un po’ d’acqua, perché questo “è solo l’inizio”. Un neanche tanto velato riferimento al malore che ha colpito Netanyahu pochi giorni fa, dovuto – è stato detto – alla mancata idratazione in un giorno molto caldo, non solo in Italia ma anche in Israele.
Il clima politico non è da meno di quello meteorologico, in Israele.
Un fermo immagine da un video dell’arrivo dei manifestanti a Gerusalemme postato su twitter da Dan Adin. L’articolo di Paola Caridi è anche sul sito di Lettera22.