Un filo di… ceci tra Roma e Gerusalemme

La cucina romana è cucina di terra. Laddove terra sta per verdure, e non tanto per carne. Una volta si sarebbe chiamata cucina povera, perché – ed è cosa vera – la tradizione del cibo a Roma è tradizione popolare, pochissimi soldi, molti campi. L’Agro romano nutriva la città. Le proteine animali erano quelle ricavate dalla carne ovina, da pecore e capre. E dalle galline e soprattutto dai conigli. È per questo che Roma è capitale delle interiora: gli scarti del Continua a leggere

Al tempo delle mishmish

Il tempo delle albicocche, dicono i palestinesi, è molto breve. Qualche settimana appena. Appena il tempo di cogliere velocemente le albicocche, più piccole e chiare e aspre di quelle italiane. È per questo che il tempo delle albicocche è così evanescente da scomparire in uno schiocco di dita. Bukra fil mishmish, dicono tutti gli arabi, letteralmente ‘domani, al tempo delle albicocche’. Cioè mai, una pia illusione. Eppure, quella illusione così eterea è fisica, è un frutto, dal sapore asprigno e affascinante. Un po’ come affascinanti sono le nostre arance amare, quelle selvatiche.
Di maggio, quando è il tempo giusto delle mishmish, le vecchie madri palestinesi raccolgono in fretta le albicocche, e perché non vadano sprecate preparano una marmellata che poi spalmano su vassoi e lasciano seccare con cura al sole. Di Ramadan, i fogli di marmellata di albicocca (veri e propri fogli un po’ più spessi della carta, formato quasi A4) vengono sciolti in acqua calda, zuccherati se necessario, aromatizzati talvolta con acqua di rose. E diventano il qamar ad-din, una di quelle bevande che accompagnano il pasto che rompe il digiuno rituale del Ramadan.
In fondo, anche in Italia si usano le albicocche conservate, per la festa. Danno colore al cesto di frutta secca a Natale. Perché, però, non sfruttarle di più, e dare alle albicocche secche un ruolo più importante, come già (di rado, ahimè) si fa cuocendole assieme a un arrosto di maiale? Frutto amato dal Levante arabo sino al Marocco, è dalle parti dell’Atlante che l’albicocca raggiunge punte eccelse, nell’uso in cucina. Per esempio nelle tajine di pollo o di agnello. Le ricette sono tante, ognuna con la sua piccola variazione. Importante è far rosolare la carne scelta con molta cipolla, aggiungere le spezie del caso (almeno zenzero e cannella, ma Farouk Mardam Bey, nella sua Cucina di Ziryab, aggiunge anche boccioli di rosa, da buon siriano…), aggiungere acqua o brodo e lasciare cuocere per almeno un’ora. Su un altro fornello, fate ammorbidire le albicocche secche, con acqua e miele. Le aggiungerete quasi alla fine della cottura alla carne, per dare quel gusto di agrodolce che contraddistingue un piatto semplice, e allo stesso tempo singolare. Color del sole.

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Questo è un assaggio del mio passatempo, quello attraverso il quale riesco a ‘sopportare’ le analisi sulla politica mediorientale. Ed è stato pubblicato sull’ultimo numero di East, rivista di geopolitica.

Discontinuità musicale: Averti addosso, nella versione in cui Gino Paoli viene accompagnato da Danilo Rea. Ora lo cerco su Youtube. Altrimenti, c’è sempre ITunes.

E per continuare: di tericcas e carteddate

A gentile richiesta, continuo a intrecciare i fili dei dolci lungo il Mediterraneo. Parlavamo di mosto cotto per condire la cuccìa siciliana, proprio al limite dell’autunno, al principio dell’inverno. E mosto cotto si usa per condire le carteddate pugliesi: un must, un cult per il Natale, direbbe qualcuno. Portando tutto alle sue giuste proporzioni, le carteddate sono l tipico esempio di come si fa festa col nuovo. L’olio nuovo, fondamentale per l’impasto. E il mosto cotto, appunto. Ingredienti di stagione, per festeggiare ciò che si è riusciti a ricavare dalla terra.
Le carteddate sono dei nastri girati in maniera tale da comporre una coroncina, per poi friggerli e infine lasciarli ‘bere’ mosto cotto quanto basta. Ora, ditemi se non è – in un certo senso – commovente la somiglianza estrema tra le carteddate e le tericcas. Spiega Anna, la mia Virgilio della cucina sarda: “la tericca doveva avere pasta sottile ed una certa lavorazione estetica. Quelle brave fanno dei veri pizzi: pasta sottile, immacolata e una certa fantasia nella plasticità. Le tericcas che ho trovato su internet sono più da lavorazione industriale o da manualità poco raffinata. Di fatto tra la parte ripiena e la bordatura deve esserci maggiore spazio”.
Tericcas, dolci sardi in questo caso tipici della Pasqua, coroncine ripiene – appunto – di un composto di cui è regina il mosto cotto…
Non dico altro. Se per caso doveste rintracciare altri fili, fatemi sapere.

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Buona Santa Lucia, tra cuccìa, cucciddati e ma’moul

Come li chiamereste, i dolci riuniti a corona in questa fotografia? In Sicilia si chiamano in modi diversi. Buccellati, certo. Oppure, meglio ancora, cucciddati. Dolci autunnali. Anzi, dolci che sono come un viatico per l’inverno. I fornai li mettono in mostra proprio in questi giorni, tra l’Immacolata e Santa Lucia. Ripieni di zucca, o meglio ancora di marmellata di fichi o di fichi secchi.
Chi ha frequentato il mondo arabo – vado ancor più nello specifico, il Levante – come me, sa che quei dolci immortalati nella foto (trovata sul sito dell’università di Betlemme) altro non sono che ma’moul. Dolci pasquali, in questo caso, ma ripieni anche loro di fichi secchi o di marmellata di fichi. Differenza sostanziale: l’uso del semolino nell’impasto, mentre nella versione siciliana è normale impasto di farina. Per il resto, la somiglianza è talmente evidente che non serve neanche sottolinearla.
Dolci figli dello stesso mare. Dolci che, un tempo, usavano tutte le comunità religiose a Gerusalemme. Musulmani, cristiani, ebrei, mediorientali di diverse fedi uniti dai ma’moul. Mentre a duemila chilometri via mare, in Sicilia, mani simili fanno lo stesso movimento, in cucina. Rivolgono il palmo verso l’alto, mettono una cucchiaiata di impasto, chiudono delicatamente la mano e con l’altra lavorano l’impasto così da ricavarne un buco in cui adagiano un po’ di ‘condimento’. Fichi, zuccata. Come fichi o datteri sull’altra sponda. Poi tocca alla fantasia, necessaria per decorare. I palestinesi usano una specie di cucchiaio di legno in cui è incisa una raggiera, come una margherita, per imbellire la parte superiore dei ma’moul. In forno, per poco. Poi un po’ di zucchero a velo spolverizzato.
I fili del cibo non sono poi così invisibili. Basterebbe soffermarsi a guardare le forme, e farsi raccontare un po’ di storie.
Come quella della cuccìa, tra Palermo, Trapani e dintorni. La cuccìa per Santa Lucia. Grano e ceci. Entrambi ingredienti non poveri, ma contadini. Cercate su Google, troverete tanto. Ma la sapienza virtuale vi dirà le ricette. Non vi dirà, invece, che quelle ricette non sono cosa stantìa. C’è chi ancora, per Santa Lucia, la cuccìa la fa, la porta ai vicini, la regala, la prepara per i figli. È la periferia dell’Italia, non c’è dubbio. Talvolta, però, mi vien da pensare che sia più al centro dei tanti salotti culinari che vanno così di moda. Almeno, è al centro del Mediterraneo. C’è il grano. E ci sono i ceci, fondamentali nella cucina araba. Ci potrebbe anche essere il mosto, per condire la cuccìa, che altri invece condiscono con zucchero, o miele. È lo stesso periodo, gli stessi giorni in cui, in Puglia, si usa il mosto per condire le cartellate. Carteddate.
È come fare zapping. Come navigare nel web. Rintracciare le stagioni della cucina, saltabeccando da un dolce prenatalizio all’altro. Molto più bello, però.

Decisamente più difficile la scelta del brano per la playlist. Visto che a Palermo, nello splendido Teatro Massimo, c’è appena stato Claudio Abbado a dirigere una compatta e divertita Orchestra Mozart di Bologna che suonava Johann Sebastian Bach, propongo la suite n.3 BWV 1068. Il secondo movimento, l’aria della suite la conosciamo tutti….

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In esilio ci sta bene un coniglio

 

Anziché nell’apolidia, il trucco consiste nell’avere molte case, ma nel trovarsi, per ciascuna di esse, contemporaneamente dentro e fuori, coniugare intimità e occhio esterno, coinvolgimento e distacco: un trucco che le persone sedentarie difficilmente possono imparare. L’esilio offre l’opportunità di imparare tale trucco: tecnicamente, un esilio significa essere in un posto ma non farvi parte. L’illimitatezza risultante da tale condizione (e che è anzi l’essenza stessa di tale condizione) rivela come le verità locali siano fatte e disfatte dagli uomini, e come la lingua madre sia un ininterrotto flusso di comunicazioni tra generazioni e un tesoro di messaggi sempre più ricco di quanti ne vengono letti e perennemente in attesa di essere riscoperto. […]

Creare (e dunque anche scoprire) significa sempre infrangere una regola; seguire una regola è pura e semplice routine, non un atto di creazione. Per l’esiliato, infrangere le regole non è una questione di libera scelta, ma una circostanza inevadibile. Gli esiliati non conoscono a sufficienza le regole invalse nel paese ospitante, né le trattano con rispetto sufficiente a far apparire sinceri i loro sforzi di osservarle e conformarvisi.

 Zygmunt Bauman, Modernità Liquida, Laterza 2002, pp.245-246.

 

Vale per tutti gli esiliati, quelli all’interno dei propri paesi, coloro che non riescono a omologarsi del tutto, gli emigranti che lasciavano i propri materassi e i poveri corredi a Palermo, al Monte dei Pegni ora restaurato all’interno di Palazzo Branciforte. Un memento che ha un sapore tutto dickensiano. Ho riletto queste frasi Bauman mentre rileggevo, parallelamente, Cent’Anni di Solitudine, ambientato in un luogo – Macondo – che è composto sin dalle sue origini di auto-esiliati che vanno a trovare condizioni migliori. Una città, Macondo, che continua a essere crocevia anche quando si trasforma in un posto pieno di case, di abitudini consolidate, di unioni. La contaminazione e l’accoglienza, a Macondo, non vengono mai meno, perché questa è la forza della città. Dell’archetipo della città.

Vale per i fatti di questi ultimi giorni, segnati – al contrario – dallo sguardo verso l’Altro che si fa più torvo, forse – paradossalmente – più in Occidente che sulla riva sud del Mediterraneo. E invece la contaminazione è vincente. Nella città. E anche in cucina, ovviamente. E allora, per alleggerire riflessioni che rimandano a Edward Said e a Mahmoud Darwish, così come alle lunghe gallerie di legno di Palazzo Branciforte, ecco la ricetta del coniglio allo zafferano. Un piatto che rimanda alla tipica cucina contadina romana (quella di mia madre), condito con quel tanto di profumi in più che non guastano. Per creare, appunto, bisogna sempre infrangere una regola. E gli esiliati, che di regole ne hanno viste molte, seguite in modo più o meno farisaico, sono bravissimi a infrangerle…

 

Il coniglio deve essere di campagna, a chilometro zero o poco più. Piccolino, insomma. Fatevelo tagliare a pezzi grandi. Marinatelo per un po’ di tempo (basta anche un’ora) con del vino bianco, un po’ di olio, e tutte le erbe aromatiche e spezie che vi trovate nelle vicinanze. Rosmarino, pepe, aglio, e il mio amato origano non ci stanno per niente male.

Fate rosolare il coniglio per bene, così che faccia quel po’ di crosta, in olio e cipolla.  E magari aggiungete un po’ di vino, che farete sfumare. Mettete molte carote e molto sedano, tagliati grossolanamente. Se serve, aggiungete un po’ d’acqua, e fate cuocere. A metà cottura, mettete lo zafferano che avrete fatto sciogliere in un po’ di acqua calda, e i pinoli. A fine cottura, le olive nere, quelle al forno. Non cuocetele, le olive, se non per pochissimi minuti, altrimenti il gusto diventa amaro.

Buon appetito, in onore dei grandi e dei piccoli esiliati.

E per la playlist,  The Tracks of My Tears, che molti ricordano nella colonna sonora del Grande Freddo, in una particolare versione di Smockey Robinson assieme ad Annie Lennox.

Giallo limone. E poi verde, e poi rosso… Si cucina

Tanto per esorcizzare i tamburi di guerra che suonano in Medio Oriente, mi consolo con la cucina. Riprendo allora una vecchia abitudine che avevo inaugurato nel blog vecchia maniera. E parlo di limone e non solo. Perché con il succo di limone si fa la limonata alla menta, che mi aveva ispirato l’introduzione di Arabi Invisibili. E perché il giallo del limone e il verde della menta sono i colori che definiscono il mio Mediterraneo. A Gerusalemme così come in Sicilia-

Avevo un po’ di spatola avanzata. Troppa, per il tortino di spatola (al forno) condita con pangrattato e olio, assieme a pinoli, buccia d’arancia, semi di finocchio e prezzemolo. E allora ho fatto una mousse. Emulsione, la chiamano in tv, nella miriade di trasmissioni dedicati all’ultimo mito, quello dei fornelli versione catodica. Ma l’emulsione è un termine francamente un po’ troppo altisonante per la cucina popolare e regionale che è l’unica che so fare.

Ho fatto saltare la spatola con po’ d’olio e aglio, poi ho preso il minipimer, ho aggiunto sale, olio, pepe nero, limone e menta. Ho frullato il tutto. Ricetta pronta. Ho messo la mousse su crostini di pane nero di Castelvetrano, ma si possono anche preparare delle ottime crepes monodose, di quelle piccole fatte in una normale padellina.

La buccia di limone grattato l’ho usata anche nell’impasto della crostata di grano saraceno alla marmellata mista di agrumi. Una crostata che si faceva nella trattoria “Gemma” di Amalfi sino a che, purtroppo, non ha chiuso. Lasciando orfani tutti noi che ne avevamo provato la semplice cucina di mare, assieme alla crostata e ai gelatini. La ricetta base della pastafrolla è semplice: mezzo chilo di farina di grano tenero e altrettanta di farina di grano saraceno (la trovate in farmacia, tra gli alimenti per celiaci). Ci aggiungo mezzo chilo di margarina, 200 grammi di zucchero, un po’ di buccia di limone e di lievito, 4 uova e un pizzico di sale. L’impasto va messo in frigorifero per un’ora. Metto assieme marmellata di limone, di mandarini, di arance, spalmo il composto sulla pastafrolla, aggiungo le indispensabili striscette di pastafrolla (altrimenti, che crostata è) e inforno. A metà cottura, aggiungo i pinoli. Tre quarti d’ora in forno a 180°. Voilà.

Intanto, ci si prepara per una rigorosa, ortodossa salsa di pomodoro, per l’inverno. Bottiglie, pomodori a lavare. E magari anche un po’ di pasta fatta in casa per festeggiare. È un rosso intenso, quello dei pomodori a filiera cortissima, praticamente zero, anzi sotto casa. Rosso pomodoro, per fortuna, perché i tamburi di guerra sembrano molto lontani. Sono solo dall’altra parte del mare, verso oriente.

A proposito di giallo, per la playlist c’è Yellow Ledbetter, Pearljam.

 

Della hindeh, ovvero cicoria, e di altre erbe

Da Hajj Ali, ieri, c’era l’intero catalogo dell’inverno palestinese. Le arance di Gerico, le franzawi, e cioè le tarocche. E quelle che invece piacciono a me, un po’ aspre, da tagliare a fette e condire con sale olio e pepe. C’era la rucola selvatica, il jarjir, gli spinaci (sabaneh) versione palestinese, patate di campagna, mele del Golan. C’era, soprattutto, la hindbeh piccolina, freschissima, a mazzetti dentro una larga cesta di vimini.

Dente di leone, cicoria. Hindbeh, appunto. Un po’ più vicina a quello che a Roma è il cicorione. Purtroppo, però, non cresce come il cespo dai cui germogli si fa l’insalata più buona della tradizione romana, le puntar elle. Più chiara rispetto al cicorione, nella versione più tenera sembra quasi quell’erba che, quando ero piccola, mia madre usava chiamare la barba dei frati.

Fatta bollire per cinque minuti, ripassata con olio aglio e peperoncino, è una citazione quasi fedele della cicoria ripassata. Semmai, ha un sapore più raffinato, meno amaro. Nella tradizione culinaria palestinese, la si lava, si taglia piccola piccola e la si mescola con il sale, per levare – appunto – l’amaro di troppo. Si può mangiare, dunque, come una normale insalata, con l’immancabile limone, sale e olio rigorosamente di oliva (il migliore è sempre quello di Beit Jala, diventato ormai carissimo perché gli oliveti, nell’area di Betlemme, sono stati espropriati e sradicati per far posto al Muro di separazione costruito da Israele). La hinbeh, però, si può anche cuocere, con poche differenze rispetto alla ricetta italiana. Bollita, poi ripassata con olio e cipolla, al posto dell’aglio. A parte, fanno soffriggere della cipolla nell’olio sino a che non diventa bruna, e poi mescolano tutto assieme, con un po’ di coriandolo e limone.

Per una romana, la hindbeh ha la capacità di moderare la nostalgia del proprio paese. Non è che proprio riesca del tutto a pacificare, soprattutto quando Gerusalemme si incupisce sotto la pioggia costante e a dirotto descritta magistralmente da Amos Oz in Michael mio. Almeno, però, è una delle tante citazioni  possibili in un posto, come Gerusalemme, in cui erbe, verdure e gastronomia riportano a una terra comune. La terra e il mare di mezzo.

La foto fa parte della collezione Matson, conservata presso la Library of Congress. La trovate tutta su internet: un viaggio incredibile in Palestina.

Mi sono accorta di non aver messo nessun brano di Danilo Rea, in questa playlist virtuale. Rimedio subito: Che cosa c’è.

Tenerume e calamaretti

Che i  miei lettori mi perdonino: scriverò presto di Egitto (#tweetnadwa, dibattiti politici a Tahrir, nuova costituzione)  e di Gaza (la cattura della Dignitè – Al Karama, che mi tocca ancor di più, visto che tra le sedici persone a bordo del battello pacifista c’era anche Amira Hass, giornalista di vaglia, donna coraggiosa, amica).

Ho deciso, però, che per far cadere la tensione bisogna occuparsi di cucina. Come io faccio spesso, in circostanze di questo tipo, quando la pressione degli eventi comincia a essere alta e c’è necessità di tenere gli occhi (e il cuore) attenti a quello che succede attorno a noi. Allora, parliamo del tenerume. Verdura in uso d’estate soprattutto in Sicilia, in sostanza foglie e germogli di quelle zucca lunghe, verde chiaro. Un mix botanico tra zucche e zucchine, tanto per far capire di che cosa si  tratta a chi poco s’intende di verdura.

Il tenerume è uno di quei must che, d’estate in Sicilia, non possono mancare. Sono pasto di famiglia, da fare con i capellini, o con gli spaghettini spezzati. Fresca, buona, e fa pure bene, la pasta col tenerume (o coi tenerumi) impegna un po’ di tempo, ma solo per scegliere le foglie che più si prestano (quelle meno dure) e quei pezzi di gambo che non sono ancora legnosi. Per il resto, è quanto di più semplice, e anche abbastanza veloce, ci possa essere.

Il tenerume lavato per bene si fa cuocere in acqua, con qualche altra verdura. Io ci metto aglio, carota, sedano, e pezzi di zucca verde, ma  le scuole di pensiero sono tante. Per esempio, una scuola di pensiero dice che a parte bisogna fare un soffritto con olio, aglio, e pomodorini di stagione, per poi aggiungerlo alla fine. Altri, invece, fanno i tenerumi bianchi.

Io, per mio conto, penso che bisogna essere filologici quel tanto che basta per ricordarsi non solo le tradizioni culinarie, ma per avere quel tasso di conoscenza giusta che consente – poi – di modificare un po’ le cose lungo il tragitto. Così, dopo aver rispettato la tradizione e aver aggiunto il soffritto coi pomodorini, ho fatto saltare a parte, in una padella, dei calamaretti freschi freschi che avevo trovato la mattina. Olio, aglio, peperoncino, i calamaretti poi sfumati con un po’ di vino bianco, prezzemolo. Ho aggiunto i calamaretti al brodo di tenerume che bolliva, e ci ho messo – da buona romana – i cannolicchi. Rigati, mi raccomando. Tradotto: quel tipo di pasta corta (cortissima) che in altre regione si chiama tubetti.

Ho spento il fuoco quando la pasta era poco più che cruda. L’ho tolta dal brodo. L’ho fatta riposare e raffreddare, ho aggiunto abbondante olio. L’ho servita fredda, la sera. Era buona.

Il mio sogno? Prepararla presto a una mia amica, molto coraggiosa.